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Con l’intento di restituire a palazzo Spalletti Trivelli il suo antico splendore, a partire dalla fine degli anni settanta del secolo scorso Credem si è impegnato, e si impegna tuttora, nell’acquisizione di dipinti antichi di maestri emiliani o attivi in Emilia tra l’inizio del Cinquecento e la fine del Settecento, con una particolare predilezione per la pittura barocca, la stagione d’oro dell’arte bolognese.

Il radicamento di Credem ad un preciso contesto storico-geografico ha infatti giocato a favore di un progetto culturale che si propone di riflettere la produzione artistica della città di Reggio Emilia e del più ampio contesto artistico regionale.

Questo spirito si coglie già dal più antico dipinto oggi nella raccolta, la Madonna con il Bambino e i santi Rosalia e Giovanni Evangelista di Lorenzo Costa (Ferrara 1460 circa- Mantova), una tavola di ridotte dimensioni destinata probabilmente alla devozione privata (fig. 1). 

L’opera riflette l’attenzione di Costa alla pittura di Perugino e fu realizzata intorno al 1506, all’epoca degli affreschi dell’oratorio di Santa Cecilia a Bologna, un ciclo al quale collaborò anche il più anziano Francesco Francia (Bologna 1450 circa- 1517), anch’egli presente in collezione con la pala d’altare raffigurante la Madonna con il Bambino, san Giovanni Battista e san Gerolamo, eseguito in collaborazione con la bottega. Entrambi i pittori furono maestri di primo piano nella Bologna d’inizio Cinquecento e lavorarono per i Bentivoglio, la famiglia che detenne il potere in città fino al 1506, quando papa Giulio II, li cacciò stabilendo il dominio dello Stato Pontificio. 

Foto 1 - Lorenzo Costa, Madonna con il Bambino e i santi, 1506 circa

 

Le grandi novità della pittura romana giunsero invece a Bologna grazie all’arrivo, tra il 1514 e il 1515, dell’Estasi di santa Cecilia di Raffaello, oggi in Pinacoteca Nazionale, mentre la maniera di Michelangelo si diffuse con l’attività bolognese del giovane Giorgio Vasari, il futuro autore delle celebri Vite de' più eccellenti pittori, scultori, e architettori pubblicate nel 1550, un testo fondamentale nel quale per la prima volta venivano raccolte le biografie degli artisti da Cimabue e Giotto fino alla fine del Cinquecento e all’autore stesso.

Con Vasari avrebbe collaborato, negli affreschi a Palazzo Vecchio a Firenze, anche Lorenzo Sabatini (Bologna 1530 circa- Roma 1576) attestato nella raccolta Credem dalla Lapidazione di santo Stefano, dove la maniera michelangiolesca risulta particolarmente evidente nella muscolosa figura di schiena che sta per uccidere il santo (fig. 2). 

Foto 2 - Lorenzo Sabatini, Lapidazione di santo Stefano, 1560 circa

 

Bolognese d’azione è invece il fiammingo Denys Calvaert (Anversa circa 1540- Bologna 1619). Giunto in Italia per compiere il viaggio ambito da tutti gli artisti d’Oltralpe, dopo il soggiorno a Roma Calvaert si stabilì definitivamente a Bologna dal 1574, aprendo una bottega che sarà una vera e propria fucina di giovani talenti, dal momento che furono suoi allievi un centinaio di pittori della generazione successiva, tra i quali Guido Reni.

L’Annunciazione e l’Adorazione dei magi (fig. 3) in collezione evidenziano bene le caratteristiche della pittura di Calvaert, nella quale si coniugano la tenerezza della tradizione emiliana alla precisione nella resa delle stoffe e degli oggetti preziosi tipica dell’arte fiamminga. 

Foto 3 - Denys Calvaert, Adorazione dei magi, 1595 circa

 

Un nucleo di accattivanti tele rende conto dell’attività di Ippolito Scarsella detto lo Scarsellino (Ferrara 1550- 1620), maestro attivo alla corte dei duchi d’Este che, grazie ad un lungo soggiorno a Venezia fu profondamente influenzato dalla pittura vibrante e dalle pennellate filanti di Jacopo Bassano e di Tintoretto, come ben dimostrano la Visitazione, efficace nella resa intensa degli affetti e le quattro Storie della Vergine, di insolito formato lungo e stretto, probabilmente parte di un ciclo di tele.

Assai significative, per il legame dell’artista con Reggio, sono le tre prove di Camillo Procaccini (Parma 1561- Milano 1629): il suo San Paolo, un’opera dalle forme affusolate ancora legate alla pittura manierista, nello sfondo di paesaggio che si apre a perdita d’occhio si lega ai bellissimi affreschi realizzati da Camillo nel presbiterio della basilica di San Prospero in città, uno dei suoi capolavori. Trasferitosi a Milano nel 1587, Procaccini divenne uno dei pittori di maggior fama in quella città e uno dei maestri più adatti a divulgare i canoni della pittura controriformata caldeggiata da Federico Borromeo, come dimostra il San Pietro penitente (fig. 4) nella espressività caricata del santo e nella chiara spiegazione degli episodi legati alla passione di Cristo, del quale si intravvede la cattura nello sfondo.

Il suo grande bozzetto “in grisaille”, vale a dire in sfumature di grigio, con la Morte della Vergine, è preparatorio al progetto di decorazione del presbiterio della Cattedrale di Piacenza, portato a termine da Camillo tra il 1605 e il 1607 insieme a Ludovico Carracci. 

Oltre ai già richiamati affreschi di Procaccini in San Prospero, la collezione d’arte Credem rispecchia la storia artistica di Reggio Emilia anche attraverso l’acquisizione di opere dei maestri più importanti attivi nella decorazione della Basilica della Madonna della Ghiara, uno dei maggiori cantieri sacri in Emilia tra fine Cinquecento e inizio Seicento. 

La Deposizione di Cristo di Alessandro Tiarini (Bologna 1577- 1668), un dipinto di intensità tragica e di grande eleganza formale nella perfezione del corpo nudo del Cristo, precede di poco (1615 circa) il coinvolgimento del maestro in basilica, dove avrebbe affrescato il braccio occidentale (1619) e la grandiosa Assunzione della Vergine nell’abside (1625-1630 circa). 

Foto 4 - Camillo Procaccini, San Pietro penitente, 1590 circa

 

Più tardo è invece il Salvator Mundi dello stesso Tiarini (fig. 5), una prova di notevole forza espressiva, con Gesù che emerge dalle nubi nella sfolgorante potenza della risurrezione e che si volge allo spettatore nel dinamico gesto benedicente. 

A questo maestro fece concorrenza, nello stesso rinomato santuario della Ghiara, Lionello Spada (Bologna 1576- Parma 1622), che affrescò la cupola (1614- 1615) presente in collezione Credem con la Salomè riceve la testa del Battista, dipinta intorno al 1615. L’opera riflette la formazione dell’artista alla scuola dei Carracci nel tenue incarnato della giovane dall’espressione ambigua, unita al timbro coloristico cupo e alla tematica legata alla produzione di Caravaggio, con cui Spada era entrato in contatto sia durante il suo soggiorno romano sia a Malta, dove aveva lavorato nel palazzo del Gran Maestro a La Valletta.

Foto 5 - Alessandro Tiarini, Salvator Mundi, 1620 circa

 

Agli anni tra il 1616 e il 1617 risale poi la spettacolare Maddalena in gloria sorretta dagli angeli (fig. 6) di Giovanni Lanfranco (Parma 1582- Roma 1647), che unisce alla grazia dei putti ancora di derivazione correggesca gli accentuati contrasti luministici dei primi seguaci di Caravaggio, conosciuti dall’artista a Roma, dove realizzò opere celebri come gli affreschi della cupola di Sant’Andrea della Valle.

Foto 6 - Giovanni Lanfranco, Maddalena in gloria, 1616- 1617

 

Poco più tardo è uno dei capolavori della collezione il Mosè con le tavole della Legge dipinto da Guido Reni (Bologna 1575- 1642) nei primi anni venti del Seicento, già nella raccolta Barberini a Roma (fig. 7), che nella solennità della figura del patriarca ammantato di rosso che emerge dal cielo plumbeo alle sue spalle rivela la potenza della maniera del primo Guido.

Alla maestosità del Mosè si contrappone la tenerezza e l’abbandono dell’Ecce Homo dello stesso Reni, di straordinaria delicatezza nella gamma cromatica perlacea e rosata, eseguito tra il 1630 e il 1635 e proveniente dalla prestigiosa collezione della famiglia dal Pozzo della Cisterna di Torino. 

Legato alla committenza piemontese è probabilmente anche l’Allegoria della Pace di Giovan Giacomo Sementi (Bologna 1583- Bologna 1636/1642), uno dei numerosi allievi di Reni, che lavorò a Roma alla corte del cardinale Maurizio di Savoia, amante dei dipinti a soggetto allegorico come quello in collezione.

Spetta invece a uno dei migliori allievi di Reni, Simone Cantarini (Pesaro 1612- Verona 1648), l’Angelica e Medoro (in copertina), che raffigura il celebre episodio dell’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto nel quale i due amanti scrivono in ogni luogo i loro nomi intrecciati, evento che scatenerà la follia di Orlando. La delicatezza dei gesti e degli sguardi dei due amanti rivelano le notevoli doti dell’artista nel cogliere le emozioni dell’animo umano. 

Foto 7 - Guido Reni, Mosè con le tavole della Legge, 1620 circa

 

Il maestro fiammingo Cornelis de Wael (Anversa 1592- Roma 1667) è autore della Minestra dei poveri (fig. 8), forse parte, in origine, di una serie di Sette opere di misericordia corporale, dove questa rappresenterebbe il “dare da mangiare agli affamati”. De Wael è conosciuto soprattutto per le serie di dipinti legati alla raffigurazione di poveri e mendicanti, particolarmente apprezzati nel corso del Seicento e nell’opera del Credem l’artista si ispira,  nella figura femminile che regge un bimbo scendendo dalle scale, all’Elemosina di san Rocco di Annibale Carracci, un tempo a Reggio Emilia nell’oratorio dedicato a quel santo e oggi alla Gemäldegalerie di Dresda. 

Foto 8 - Cornelis de Wael, La minestra dei poveri, 1630 circa

 

Un altro dei capolavori della raccolta Credem è la Sibilla Cimmeria (fig. 9) di Guercino (Cento 1591- Bologna 1666). Con lo sguardo rivolto verso il cielo in attesa che la divinità le rivolga il messaggio profetico, la figura femminile si staglia su un paesaggio dalle tinte rosate del tramonto, in un insieme di estrema eleganza. La presenza dell’opera del maestro richiama l’attività di Guercino per Reggio Emilia, dove tuttora si conservano il Crocifisso nella Basilica della Ghiara e la pala con l’Assunta e i santi Pietro e Gerolamo in Duomo.

Foto 9 - Guercino, Sibilla Cimmeria, 1640 circa

 

Legato alla città per nascita è Luca Ferrari, detto Luca da Reggio (Reggio Emilia 1605- Padova 1654) rappresentato in collezione da Davide con la testa di Golia, eseguito tra il 1645 e il 1650 (fig. 10), un’opera capitale nello svolgimento della sua carriera, eseguita negli anni del secondo periodo reggiano del pittore, durante il quale affrescò la volta della Basilica della Ghiara.

Nella figura di Davide che regge con baldanza la spada emerge l’attenzione dell’artista ai temi caravaggeschi ma gli accostamenti delicati del bianco e del rosa dei manti che lo ricoprono richiamano la pittura veneta, da lui assimilata durante i ripetuti soggiorni nel padovano.

Agli stessi anni risale anche la Salomè con la testa del Battista: l’aria imbronciata della figura femminile rivela la capacità del maestro di cogliere la psicologia controversa della giovane donna.  

Foto 10 - Luca Ferrari, Davide con la testa di Golia, 1645 circa

 

Numerose anche le presenze in collezione di maestri attivi in ambito bolognese nella seconda metà del Seicento, come Lorenzo Pasinelli (Bologna 1629- 1700), con Giuditta e Oloferne, nel quale i profondi chiaroscuri sono ancora debitori della pittura del suo maestro Simone Cantarini e  Marcantonio Franceschini (Bologna 1648- 1729) con due pendant raffiguranti Lot accoglie gli angeli (fig. 11) e Lot e le figlie. 

Nella tavolozza schiarita e nel morbido modellato degli incarnati le tele dimostrano le doti migliori di questo artista, convocato a Reggio dove nel 1701 fu impegnato nella decorazione ad affresco della cappella del Tesoro in San Prospero.

Chiaroscuri più accentuati si riscontrano invece nelle due grandi Storie di santa Caterina d’Alessandria di Antonio Stringa (Modena 1635- 1707), maestro che grazie al ruolo di conservatore delle collezioni dei duchi d’Este a Modena assimilò spunti eterogenei dalla pittura emiliana, al vivace colorismo veneto ai toni più cupi dei caravaggeschi napoletani. Le due tele del Credem sono parte di una serie di quattro dipinti in origine nella chiesa del collegio dei nobili di Parma. Anche Stringa lasciò la sua impronta a Reggio, nella pala con la Madonna con il Bambino e santi in San Prospero. 

Foto 11 - Marcantonio Franceschini, Lot accoglie gli angeli, 1678 circa

 

In collezione Credem non è rappresentata solo la pittura di figura, ma vi si conservano alcune prove notevoli nel campo della natura morta, tra le quali spiccano le tele di Felice Boselli (Piacenza 1650- Parma 1732), uno dei più grandi interpreti della natura morta in Emilia tra Seicento e Settecento.

Due sue grandi Nature morte con cacciagione, risalenti al 1701, ritraggono, come spiega un’iscrizione commemorativa che compare su uno degli esemplari, le prede di una caccia fortunata svoltasi a Zibello nella tenuta del conte Pallavicino (fig. 12). 

Nel genere vero e proprio della pittura di animali si sarebbero specializzati due artisti, probabilmente lombardi, Angelo Maria Crivelli detto il Crivellone (Milano, notizie 1662-1730 circa) e suo figlio Giovanni detto il Crivellino (Milano - Parma 1760), al quale spettano quattro grandi tele con Cacce di notevole qualità nella resa analitica degli animali e della ferocia dei loro scontri. 

Foto 12 - Felice Boselli, Natura morta con cacciagione, 1701

 

Una presenza di assoluto rilievo è la Natura morta di Cristoforo Munari (Reggio Emilia 1667- Pisa 1720), firmata e datata 1710 nella lettera posta sotto il pezzo di carne in secondo piano, nella quale il pittore scrive al gran principe Ferdinando de’ Medici (fig. 13).

La tela è dunque indicativa del legame tra l’artista e uno dei suoi più prestigiosi committenti, che lo apprezzava per le sue capacità nella resa delle diverse tipologie di oggetti che ritraeva, dal pesce, agli ortaggi, al vino che esce goccia a goccia dal fiasco, alla luce che si riflette nella piccola tazza di vetro accanto al mortaio.

Foto 13 - Cristoforo Munari, Natura morta, 1710

 

Ritornando alla pittura di figura, la scuola bolognese della fine del Seicento è rappresentata al meglio da un allievo di Pasinelli, Donato Creti (Cremona 1671- Bologna 1749), al quale spetta l’Allegoria dell’Esperienza, che riprende l’affresco dedicato al medico Giovanni Gerolamo Sbaraglia nell’Archiginnasio a Bologna, del 1713 (fig. 14). 

La tela del Credem rivela le doti dell’artista sia negli eleganti accostamenti cromatici giocati sui toni delle terre e del verde, sia di abile disegnatore nella perfezione anatomica della figura femminile. Pennellate rapide e guizzanti caratterizzano invece il Mercurio di Giovanni Antonio Burrini (Bologna 1656- 1727), un maestro influenzato dalla maniera di Tiziano e Tintoretto, mentre più levigata e compatta è la pittura di Giovan Gioseffo Dal Sole (Bologna 1654- 1719) presente in collezione con Diana e amorini, che nella gamma perlacea e nella delicata raffigurazione della dea attorniata dagli amorini è uno dei suoi capolavori.

Alla scuola di Del Sole si educò Francesco Monti (Bologna 1683- Brescia 1768) rappresentato dal Martirio di san Paolo, una sua pala d’altare giovanile di impatto scenografico e dalla stesura pittorica densa, affine alla sua Pentecoste in San Prospero a Reggio. 

Foto 14 - Donato Creti, Allegoria dell’Esperienza, 1715 circa

 

La Scena pastorale di Giuseppe Maria Crespi (Bologna 1665- 1747), attesta l’originale parabola di uno dei pittori emiliani più importanti della sua epoca, particolarmente attento alla raffigurazione degli umili (fig. 15). Ai temi mitologici e legati alla Gerusalemme Liberata di Tasso si lega invece il nucleo di dipinti di Ercole Graziani (Bologna 1688- 1765), Erminia e il pastore e il pendant di tele ovali con Diana ed Endimione e Rinaldo e Armida. L’eredità di Correggio, sempre viva nel contesto locale, si coglie nelle delicate tele con la Morte di Adone, Euridice morsa dal serpente e nelle quattro Allegorie delle Stagioni di Girolamo Donnini (Correggio 1681- Bologna 1741), legato alla tradizione del tardo Seicento bolognese.

Foto 15 - Giuseppe Maria Crespi, Scena pastorale, 1730 circa

Presenze dell’Ottocento e del Novecento

Nonostante la vocazione collezionistica di Credem si sia sviluppata prevalentemente in direzione dell’arte antica, nella raccolta si conservano alcune sculture e dipinti dei tempi a noi più vicini.

Si deve infatti a Pasquale Romanelli (Firenze 1812- 1887) la Diana al bagno in marmo di Carrara. La delicatezza della dea che si volge repentinamente e il candore del marmo finemente modellato rappresentano questo importante erede della scuola scultorea toscana, a lungo collaboratore di Lorenzo Bartolini. Appartiene invece alla tradizione della pittura lombarda il Ritorno della pace di Mosé Bianchi (Monza 1840- 1904), un’opera notevole dove nello spazio che si amplia all’infinito e nelle figure fluttuanti l’artista rivela ancora le suggestioni degli affreschi lasciati a Milano nel Settecento da Giambattista Tiepolo.

Di temperamento differente è invece il bronzo All’aratro di Enrico Butti (Viggiù 1847- 1932), scultore attivo in cantieri prestigiosi come il Duomo e il Cimitero Monumentale di Milano, che nel vigoroso contadino al lavoro restituisce l’attenzione dell’arte lombarda agli aspetti del quotidiano.

Un’atmosfera sospesa caratterizza il Notturno a Venezia di Adolfo Ocón Toribio (Malaga 1863- 1935), una veduta suggestiva della città lagunare di un’artista tra i più rilevanti della pittura di paesaggio a Malaga (fig. 16). 

Foto 16 - Adolfo Ocón Toribio, Notturno a Venezia, 1900

 

Spetta invece al sensibile paesaggista Alberto Zardo (Padova 1876- Firenze 1959) la Veduta di Castiglioncello, nella quale la luce del sole che si riverbera sulle case del borgo sul mare genera un’atmosfera quasi incantata (fig. 17). 

Foto 17 - Alberto Zardo, Veduta di Castiglioncello, 1910, circa 

 

Un vero capolavoro è Velmare di Giacomo Balla (Torino 1871- Roma 1958), firmato “Futurballa” e risalente al 1919 (fig. 38), nella piena adesione dell’artista al Futurismo, quando durante il soggiorno a Viareggio Balla studiò a lungo il movimento delle onde e delle vele delle barche, che appaiono qui nella forza del loro ritmo sinuoso e nel vivido contrasto cromatico dei rosa e degli azzurri. Notevole è anche il grande bronzo con Adamo ed Eva (fig. 18) di Arturo Martini (Treviso 1889- Milano 1947), del 1932, in origine vera da pozzo del giardino chiamato “Il Paradiso Terrestre” della villa dei coniugi Ottolenghi ad Acqui Terme. Nella compattezza dei volumi e nella loro monumentalità si rivela lo sguardo di Martini all’arte del Quattrocento italiano.

La Gabbia di Ennio Morlotti (Lecco 1910- Milano 1992), esposta alla Biennale di Venezia del 1950, è assai significativa, nella scomposizione delle forme, dell’influsso dell’arte di Picasso sugli artisti italiani del secondo dopoguerra, mentre Nel bosco di Carlo Mattioli (Modena 1911- Parma 1994), del 1981, dalla stesura pittorica corposa e giocata sulle sfumature del verde, rappresenta gli esiti migliori di questo artista nell’osservazione del costante divenire della natura.

Foto 18 - Giacomo Balla, Velmare, 1919